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L’operazione chirurgica subita da Bebe Vio in aprile è rimasta “segreta fino alla vittoria”. La campionessa olimpionica non desiderava pubblicità. Non cercava alibi, ha sottolineato Riccardo Accetta, il primario di traumatologia dell’IRCCS di Milano che ha curato, con il suo staff, la grave infezione che aveva colpito il gomito dell’atleta, proprio quello dove lei ha l’invaso del fioretto. Beatrice Vio voleva che alle Paralimpiadi di Tokyo si parlasse solo della sua abilità di schermitrice, non della sua ultima tragica vicenda personale.

Se la notizia dell’intervento fosse trapelata prima della manifestazione sportiva più importante al mondo, l’accento sarebbe inevitabilmente caduto sull’operazione subita, sui rischi corsi dalla giovane atleta, sia che quest’ultima fosse riuscita ad arrivare sul podio, come ha fatto, sia nel caso in cui le sue performance fossero risultate deludenti. L’episodio ospedaliero avrebbe oscurato tutto il resto, inquinato i commenti e le interviste, avrebbe indotto lo spettatore a cercare uno sguardo, un gesto rivelatori di una presunta condizione di salute, piuttosto che a godersi la prestazione sportiva.

La forza della fiorettista veneta è sempre stata nella sua volontà di affermarsi come atleta, di andare oltre la sua disabilità, la sua vita fuori dai palazzetti dello sport. Anche se poi Bebe Vio ha prestato il suo viso a moltissime campagne benefiche, compresa quella pro-vaccini, e certamente la meningite che all’età di 11 anni le ha lasciato una gravissima disabilità è divenuto un suo punto di forza. È Bebe ad averlo reso possibile, con la sua autoironia e quella leggerezza che accompagna ogni sua apparizione in pubblico. Ed è il suo orgoglio di persona e di sportiva a bucare, ogni volta, lo schermo, a coinvolgere chiunque le sia vicino.

E come lei, anche gli altri atleti che partecipano alle Paralimpiadi, non vogliono sentirsi apprezzati per le vittorie e le medaglie conquistate, nonostante la disabilità. Il sintagma “nonostante la disabilità” non ha bisogno di inchiostro, dovrebbe pian piano scomparire dagli articoli di giornale e dalle cronache televisive, soprattutto da quelle impregnate di condiscendenza e inzeppate di termini come “supereroe”. Una parola che si usa troppo spesso, in realtà, attribuendola a chiunque compia qualcosa di poco ordinario. Ma poco ordinario non vuol dire superumano. Seppure autori di gesti poco frequenti, le persone che definiamo supereroi, restano esseri umani come tutti gli altri. Le Paralimpiadi sono nate per dare la possibilità a tutti di far emergere la propria energia, la propria forza.

Gli atleti paralimpici, dunque, come i ballerini o gli artisti o le persone che svolgono altre attività e hanno nel loro bagaglio una o più disabilità hanno bisogno di obiettività, non di espressioni iperboliche, usate come a voler compensare quel che la disabilità si presume gli abbia tolto. Il problema è di chi scrive o fa le telecronache, evidentemente sono loro a sentirsi inadeguati. Abbandoniamo ogni pietismo, lo sport ne guadagnerà.

Nei commenti dei giochi paralimpici di Tokyo 2020 non di rado si distingue nelle voci di alcuni giornalisti, nelle loro parole, un atteggiamento di condiscendenza che fa torto alla personalità di questi atleti, alla loro storia e ai loro traguardi.

Non tutti i commentatori fortunatamente cadono nella trappola del sentirsi a disagio di fronte a queste gare, dove tutti competono alla pari. È questo che bisogna tenere presente. Tutti proviamo a vincere delle sfide, ogni giorno. Gli atleti gareggiano per vincere. Sportivamente. Senza “nonostante” di troppo.