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Francesca Cavallo, ospite del BeAlternatives, è arrivata a Taranto (lo scorso 28 novembre), per l’Innovation Day, portandosi dietro quello spirito di ribellione che è nel titolo dei suoi libri. Ad una platea ansiosa di ascoltarla, Cavallo ha parlato del suo ultimo lavoro: “Elfi al quinto piano”, una fiaba di Natale contro i pregiudizi.

Per chi non la conoscesse, Francesca Cavallo è una scrittrice e regista teatrale. Co-autrice, con Elena Favilli, dei fortunati libri Storie della buonanotte per bambine ribelli: un enorme successo in tutto il mondo. Il suo bagaglio di esperienze teatrali le ha permesso di dare vita al progetto chiamato Timbuktu, prodotto da Timbuktu Labs. Un iPad magazine che utilizza illustrazioni colorate e un linguaggio semplice per offrire ai più piccoli, notizie sotto forma di intrattenimento.

Nel corso del suo intervento al BeAlternatives-TEDxTaranto, la scrittrice ha colto l’occasione per parlare ai giovani di difficoltà, “porte chiuse” e rivoluzioni del pensiero, da favorire attraverso lo strumento arte. Nel corso della sua carriera ha incontrato diversi ostacoli, ha sottolineato parlando ai giovani da uno dei palchi allestiti presso la Cittadella delle Imprese. Ma le difficoltà non l’hanno scoraggiata, anzi hanno rappresentato uno sprone ad andare avanti.

“L’adolescenza è, in genere, una condizione di confusione - ha detto, rivolgendosi agli studenti - spesso si prova rabbia e non si sa bene per quali ragioni. Il lavoro aiuta a comprendere chi si è e dove si vuole andare”.

Abbiamo conversato con lei per qualche minuto, in occasione del BeAlternatives. Ecco cosa ci ha detto:

Ti rendi conto del fatto che, con Storie della buonanotte per bambine ribelli, hai inaugurato un filone?

La cosa mi riempie di orgoglio. Sono sempre alla ricerca di un gesto artistico puro e quindi il fatto che ci sia un “prima” e un “dopo” quei libri mi rende fiera. È l’obiettivo che cerco di centrare, in tutte le cose che faccio; l’arte per me è soprattutto la capacità di creare dei mondi possibili, che siano accattivanti per la gente. “Luoghi” che gli altri possano avere voglia di abitare, ricavandone l’energia per dare vita a dei piccoli cambiamenti nella quotidianità. Azioni che possano generare una reazione a catena, per l’avvio di un cambiamento più grande.

Il superamento di una subcultura, dell’atteggiamento sempre giudicante nei confronti degli altri è forse il cambiamento più difficile da ottenere. Come fa un ragazzo portatore di una specificità, di una diversità, ad aprire le “famose porte”, nel mondo in cui viviamo, così marcatamente segnato dall’ingiustizia e dalle disparità sociali?

Di cosa parliamo? Di omosessualità?

Anche dell’orientamento sessuale, certo. Come di altre specificità, considerate diversità. Del resto, siamo tutti diversi fortunatamente, ma uguali nei diritti. Non è questa la ricchezza dell’umanità?

Mi fa piacere parlare di omosessualità, molto. Ma non amo associarla ad altro. Sono cresciuta in un mondo che associava l’omosessualità ad una patologia. Quando frequentavo la scuola media, ero convinta di avere una malattia, il contesto me lo faceva credere. Ovviamente non è così, anche se il contesto ti induce a sentirti diversa. Per me è molto importante sottolineare quello che dovrebbe essere un dato acquisito, una volta per sempre, cioè che l’omosessualità non è una malattia mentale. Il contesto ti fa credere di essere un diverso, sei nel cestino dei diversi, ma i diversi non esistono.